Lohengrin uno e due

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Articolo di  Caterina De Simone

Le mamme di una volta dicevano sempre: “I paragoni sono odiosi!” stringendo le labbra in una smorfia severa. Probabilmente è vero, però è quasi spontaneo fare un paragone fra il primo e l’ultimo, in ordine cronologico, Lohengrin dell’unico vero Cavaliere del Cigno oggi in circolazione. L’occasione è data dalla ri-trasmissione della performance monacense, datata 2009, su Sky Classica.

I tre anni fra la prise de role e la performance scaligera del 2012 hanno indubbiamente segnato un processo di maturazione importante che ha di sicuro orientato e spinto la carriera di Jonas Kaufmann (nel caso non aveste ancora capito…è lui l’unico figlio di Parsifal possibile dei nostri tempi).

Le sue due prestazioni vocali non potrebbero essere più lontane una dall’altra. Certo in mezzo sta il Lohengrin di Bayreuth, datato 2010, noto come quello “dei topi”. Ma è con la regia scaligera di Guth e la naturale evoluzione della voce che si notano i cambiamenti più radicali. La sfrontatezza vocale monacense infatti a Milano è tutta introiettata verso la fragilità dell’eroe malgré lui.

Esaminiamo il terzo atto che è il banco di prova per un tenore che affronti quel ruolo. Alla BSO la caratterizzazione del personaggio punta sulla solitudine dell’essere superiore sconfitto dalla miseria dell’animo umano. L’incredulità e la disperazione sono palpabili in chiusura del duetto della camera nuziale, e ancor più nel muto singhiozzare alla ribalta, Lohengrin accasciato sulla buca del suggeritore. Lo stesso episodio alla Scala si fa logica conclusione di una sensualità irruenta che spaventa l’Elsa “disturbata” proposta dal regista Guth. In un certo modo è come se il Cavaliere del Cigno fosse consapevole di ciò che lo aspetta. Nel Gralserzählung cantato nel teatro bavarese l’incredulità si fa evidente, non ancora metabolizzata, nello sguardo allucinato e nella mano che perentoriamente afferra quella di Elsa che vorrebbe invece farlo tacere. A Milano “In fernem Land” è invece tutto intriso di amarezza e di un dolore latente che rispecchia una accettazione passiva del ruolo di eroe che sta stretto al protagonista. Mein lieber Schwann e l’addio ad Elsa sono interpretati come risposta ad una punizione necessaria al desiderio di umanità di questo Lohengrin profondamente contemporaneo. Al contrario a Monaco prevale la dolcezza ultraterrena della creatura superiore giunta finalmente a comprendere e compatire la natura fallace dell’uomo, qui incarnata da Elsa.

Quanto di tutto questo sia da ascrivere alla mano dei registi, Jones in Baviera e Guth a Milano, non è dato di saperlo. Certo è che la caratterizzazione del personaggio non solo vocalmente ma come prova d’attore è nei due casi molto diversa, nonostante l’anello di congiunzione costituito da Anja Harteros sia presente in entrambe le occasioni. Il soprano tedesco è il logico completamento alla personalità prorompente di Jonas Kaufmann. Precisa, affidabile, mai eccessiva, in scena riesce ad imbrigliare il genio del suo partner. I due si fidano ciecamente l’uno dell’altro, i loro duetti nel repertorio italiano (non solo Lohengrin insieme) costituiscono sempre il vertice di ogni performance al quale nessuna Kristine Opolais, per citarne una, potrà mai aspirare.

Se in futuro questo Cavaliere del Cigno dovesse ripresentarsi in scena, come già sperano i parigini, saprà di certo offrire ancora un altro volto all’eroe wagneriano.

Caterina De Simone