Per Maria Agresta

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Il mio primo incontro con Maria Agresta risale a Salisburgo : era il 2015 e Maria era al debutto nel ruolo di Nedda nei Pagliacci .

MI colpì la grazia e la sicurezza di questa giovanissima cantante italiana e quando , alla fine dello spettacolo andai a salutarla per portarle il saluto di una comune amica mi trovai davanti ad una ragazzina con le trecce ,il volto bellissimo nascosto da un gran mazzo di fiori.

Così , quella sera ho cominciato ad amarla come una figlia.

L’ho ritrovata poi al Mozarteum in un recital di arie francesi e anche in quella occasione , nel backstage mi accorsi della sua grazia quando un direttore d’orchestra importante : Gianandrea Noseda la volle abbracciare con affetto .

Maria è una donna squisitamente dolce ed ha la grazia per farsi amare.

Ho seguito la sua dolce Liù, un ruolo perfetto per lei e poi l’ho ritrovata perfetta Desdemona con Gregory Kunde.

Poi , piano piano mi sono avvicinata a questa donna forte , determinata , passionale e rigorosa ma sempre dolcissima nei confronti del mondo , di un mondo , quello della lirica , dove è molto più facile trovare rivalità e forse anche cattiverie.

Maria passa lievemente tra le vicende terrene con grazia e serietà.Lei stessa si definisce passionale , ma la sua passionalità è tutta contenuta nel garbo che la distingue.

Ho avuto il piacere di viverle un po’ più accanto durante le repliche dell’Otello verdiano al ROH , mi è sembrato di capire che anche i partners la amino tutti allo stesso modo , addirittura con affetto e tenerezza.

Maria poi è andata lontana a riproporre la sua meravigliosa Mimì , già dalle foto si capisce la grazie e l’aderenza al personaggio.

Poi in autunno è stata ancora Maria nel Boccanegra a Parigi , mio rimpianto per non avere avuto la forza di andarla a sentire  , poi basta ascoltarla con totale understatement raccontare alla Barcaccia , senza nessuna enfasi, questa sua ennesima prova internazionale.

Adesso ho assistito al suo trionfo nel difficile ruolo di Anna Bolena . Credo che Maria abbia fatto con questo ruolo un ulteriore passo avanti nella sua strepitosa carriera.

Arrivata alla felice età della maturita artistica e vocale grandi cose dobbiamo aspettarci da questa straordinaria cantante , per lei credo che ormai non esistano limiti per  una carriera strepitosa a livello mondiale.

Questa mia piccola testimonianza è praticamente una lettera d’amore.

 

 

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Turandot alla Scala

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Il primo maggio è andata in scena alla Scala la Turandot , evento che in qualche modo legato all’Expo ne apriva la serie di eventi scaligeri collegati. Ebbene , mentre durante il pomeriggio ho avuto l’infelice idea di accendere la televisione e di seguire con sgomento le scene allucinanti della città aggredita e ferita da squadracce fasciste di imbecilli  ( troppo generosamente definiti black – bloc) poi la sera sono stata gratificata da un evento per alcuni  versi davvero memorabile.

Questa Turandot diretta da Chailly con il finale per me inedito di Luciano Berio è stata una specie di bellissimo regalo culturale. Come ogni melomane ho nel mio carnet di memorie molte Turandot , non tutte mirabili , come molti melomani conosco  la famosa frase di Toscanini che la dirigeva , proprio alla Scala per la prima rappresentazione : dopo l’aria di Liù del terzo atto  girarsi verso il pubblico e dire la famosa frase A questo punto il maestro Puccini e morto. Seguiva il finale per me molto poco avvincente di Alfano e tornavo a casa convinta di avere sentita un’opera , se non minore , perlomeno tra le meno avvincenti del Maestro lucchese. Ebbene dopo l’esecuzione mirabile di Chailly e la scelta culturalmente molto apprezzabile del finale di Berio mi devo ricredere su tutta la banalizzazione della mia valutazione precedente. Turandot è un capolavoro sconvolgente per la modernità e per la qualità eccelsa dell’orchestrazione  nel quale le troppo note arie che la connotano sono solo momenti dolcissimi che però brillano meno dove il continuo fluire musicale  non viene spezzato dai momenti ,diciamo così, più popolari.

Mi sono piaciuti la regia di Nikolaus Lehnhoff , l’allestimento scenico e i bellissimi costumi  anche se so benissimo che non essere lì di persona mi ha tolto parte dell’incanto che sempre lo stare in teatro aggiunge emotivamente. Della direzione di Chailly ho già detto , orchestra e coro della Scala magnifici come sempre. Nel cast brillava di luce propria una grandissima Maria Agresta , una cantante che seguito ad apprezzare ogni volta di più : l’avevo lasciata da poco Nedda nei Pagliacci a Salisburgo e la ritrovo perfetta e dolcissima nel ruolo più tradizionalmente pucciniano dell’opera . La sua vocalità pulita e sicura me la fa considerare una delle voci più belle del nostro panorama nazionale. Nina Stemme è stata una grande  interprete , seguita ad essere una voce potente e sicura , ma il maestro Puccini chiedeva forse troppo dalle sue interpreti e purtroppo Turandot è un ruolo micidiale , con dispiacere ho dovuto subirmi un attacco abbastanza imbarazzante della grande interprete . Di Aleksandrs Antonenko che dire , se ho parlato di piccolo imbarazzo per la Stemme per lui l’imbarazzo è stato continuo , belante , urlante e addirittura in alcuni momenti stonato avrebbe meritato qualcosa di più dell’isolato buuu che comunque ho sentito ben chiaro venire dall’alto. Non amo le stroncature e poi la serata era “mondana“ in senso positivo . Non valeva la pena rovinarla , ma se alla Scala si protesta per un Beczala non perfetto questo andava preso a bordate di fischi. Perfetti Ping Pong Pang:Angelo Veccia Roberto Covatta e Blagoi Nacoski anche agilmente coordinati dalle coreografie eccellenti. Nei ruoli minori dell’Imperatore e del vecchio re cieco , rispettivamente Carlo Bosi e Alexander Tsymbalyuk, gli interpreti erano perfettamente in linea con la qualità scaligera .

Il finale merita un discorso a parte : questo lento passaggio  dalla partitura pucciniana verso un discorso disincantato che passando dal senso di smarrimento del finale in calando del Tristano arriva alla Notte trasfigurata di Schonberg mi ha totalmente coinvolta . Il corpo della morta Liù in scena lega con un gesto d’amore le note conosciute ad uno sciogliersi dei sentimenti che ci restituisce quello che sicuramente avrebbe voluto dirci Puccini. Dall’estremo atto d’amore nasce un nuovo amore , grazie maestro Chailly di avercelo restituito con intelligenza e grande cultura.

Cavalleria & Pagliacci – Atto secondo

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Riprendo ad analizzare le due opere. A freddo, se ci riesco. Ovviamente inizio da Cavalleria cercando di ricostruire obbiettivamente perch  la ritengo così sbagliata nella messinscena. Premetto di essere sempre favorevole ad ogni inszenierung innovativa , ma in questo caso non ce n’era proprio bisogno. Il testo asciutto  dal ritmo scandito cinematograficamente ha in se tutti gli elementi di una scenografia rigidamente disposta: la piazza, la chiesa, l’osteria. Si possono variare gli elementi ma resta il fatto che anche spogliata da tutti gli stereotipi folklorici, le ultime messinscene puntano generalmente su colori più spenti, su una Sicilia più povera, più in la non si può andare. Se hanno comunque funzionato alcuni momenti cinematografici come l’aria iniziale cantata di spalle nella cameretta da parte di Turiddu, con un pensiero affettuoso all’amica Caterina che gli ha fatto da vocal coach per cui lui ha finito con ” mancu ce trasu ” perfettamente siculo e la scena della sigaretta alla finestra tutta la parte sottostante, affollata oltremisura al proscenio  con una chiesa più piccola di una cappella cimiteriale era veramente irritante. L’allestimento salisburghese ha avuto in Jonas Kaufmann non solo un divo della scena ma anche un grande attore che recita anche quando non canta ed ha fatto del suo compare Turiddu un personaggio spavaldo che porta in sè il suo destino di perdente.11086121_1205929179434256_605136983_o

Mai focoso, pieno di un fascino giovane e scattante riesce ad interpretare calandosi molti anni  (che poi riprenderà con l’aggiunta ) nei venti minuti scarsi che lo separano dai Pagliacci. Ottima Annalisa Stroppa, una Lola credibile e dall’emissione chiara, Ambrogio Maestri è quel grande cantante che conosciamo, diciamo che come Compar Alfio risulta un po’ sovrabbondante. Santuzza, Liudmyla Monastyrska, a parte il solito italiese dell’est, non ha il registro drammatico del ruolo, oltretutto non mi era piaciuta neanche nel Requiem. Mamma  Lucia. Stefania Toczyska, ingessata nel ruolo fisso diventa anche di difficile classificazione. Il coro, nonostante gli sforzi di tante prove, seguita a cantare in una strana lingua indefinita, per non parlare del classico urlo finale, qui affidato a due vocine giovani non riesce neppure minimamente a ricreare quel brivido ineludibile che ogni volta mi procura. Ho pensato con nostalgia alla corista del Coro Bellini specializzata nell’urlo drammaticissimo della chiusa. Di Thielemann ho già detto nel pezzo di ieri, grande direttore, ma quest’opera non è proprio nelle sue corde. Tutto diventa molto più giusto nei Pagliacci, a parte l’incipit di meta-teatro con Kaufmann che passeggia allegramente col sangue della ferita di compare Turiddu, una scivolata registica che tende a sminuire in un colpo tutta la portata drammatica dell’opera appena conclusa. Pazienza, già dal prologo molto ben cantato dal baritono greco Dimitri Platanias mentre i servi di scena avanzano con le scenografie mi fa capire che l’allestimento e ben centrato. Anche l’orchestra ha sonorità più asciutte, lo stesso coro, che comunque seguita a cantare in arabo, aiutato dal coro dei bambini, funziona decisamente meglio. Nedda, deliziosa Maria Agresta ha la vocalità per il ruolo, di Tonio ho già detto, Alessio Arduini, uno dei giovani cantanti italiani che tengo d’occhio da tempo ha il perfetto phisique du role, necessario per renderlo credibile in contrapposizione a Kaufmann, si giova anche di una vocalita’ ampia e sicura.11096956_1205479676145873_2054514585_n

Del mostro sacro che dire. Si è appesantito, ingobbito, ingrossato, il suo sguardo velato di crudeltà animale fa veramente paura. Il suo “Ridi pagliaccio” da manuale credo resterà nella storia del melodramma, tutta la parte finale, dal momento della trasformazione di scena fino alla “Commedia è finita” aiutato dai primi piani che la sezione di schermo ci offre fa stare inchiodati gli spettatori alle poltrone, comunque carissime, ma che a questo punto meritano tutta la spesa sostenuta. E’ già Otello, non gli resta che vestirne gli abiti, il personaggio c’è già tutto. In questo caso il regista ha svolto decisamente bene il suo lavoro, quando non  si vogliono troppo complicare le cose intellettualmente e si ha a disposizione un tale Kaufmann il Verismo non chiede altro che di essere ricostruito fedelmente.