Jonas Kaufmann in Andrea Chenier

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L’Andrea Chenier é un’opera legata alla mia infanzia, fa parte delle memorie piu tenere: la mamma mi raccontava la triste storia del poeta (e ci teneva a dirmi vissuto davvero) morto ghigliottinato durante la Rivoluzione Francese e del suo amore per una giovine nobile che aveva deciso di andare a morire con lui, tutto arricchito dalle storie del perfido Gerard, della fida Bersi e della vecchia Madelon. Qui la mamma si commuoveva sempre.

Poi io questa opera l’ho vista tante volte e mi é piaciuta sempre un po meno…troppi sventolii di bandiere: Liberté, Egalité, Fraternité!

Non è colpa di Umberto Giordano, ma certe opere sono piu legate di altre allo spirito dei tempi e sicuramente questa non è un capolavoro eterno. È però un must per ogni grande tenore, direi una tappa obbligata nella carriera.10923799_1159905527369955_8377430422470383616_o

Jonas Kaufmann prima o poi ci sarebbe arrivato: un title role su misura per lui e io sono corsa a vedermelo con tante speranze, ma (e non colpa sua) l’allestimento londinese mi ha lasciato nella mia convinzione, anche perché l’intervento di Mc Vicar invece di alleggerire un plot abbastanza datato ci si é tuffato dentro enfatizzandone tutte le banalità. Cosi che le grandi arie restano tutte li come figurine ritagliate in un contesto con la plebe pulita tipo statuine da presepe napoletano, col balletto sulle punte (allora se volevi fare una cosa filologica questo era da evitare), con la frase di Robespierre messa ad ogni calar di sipario, tante volte non l’avessimo capita bene!

Ovviamente Jonas cannibalizza tutte le partners e la povera Westbroek, cui peraltro ha dalla sua la piu bella aria dell’opera, non ce la fa a reggere il confronto. Potente vocalmente, preciso nella gestualita quando può esplodere nelle sue arie ci regala un’altra delle sue interpretazioni che resteranno nella memoria.10934118_1159905530703288_279811240387565565_o

In ottima forma Lucic, stavolta in gran spolvero, il suo Nemico della patria di tutto rilievo. Per il resto, come si dice, bene gli altri, un po’ meno la orripilante pronuncia del coro.

Il mio amatissimo Sir Tony – grandissimo in ogni partitura – sicuramente il migliore direttore di cantanti sulla piazza forse alle prese con Giordano, che ovviamente non è Puccini ce la mette tutta ma il tessuto generale, e non per sua colpa, mostra la corda e il registro fortissimo non rappresenta la soluzione di ogni scollatura. Ovviamente queste mie righe sono destinate a scandalizzare il popolo felice delle kaufmanniane, ad irritare tutti coloro che hanno salutato con enfasi questa ripresa. L’opera mancava da Londra da trent’anni! E io tutto sommato sono stata felice di sentirmela ancora una volta, cantandomela dentro. È di quelle opere che conosco praticamente tutta a memoria,

Per la gioia di vedere Jonas bellissimo col codino, di sentire la Mamma morta ripensando sempre alla Callas, di apprezzare il modo in cui il grande istrione riesce anche stavolta a ricreare a modo suo anche questo stereotipato personaggio , facendone un altro anello della sua ormai immensa serie di eroi.

Ma soprattutto in memoria della mia mamma che questa opera amava davvero ed è per il suo lontano raccontare che io sono la inguaribile melomane che sono.

Ps. Per una recensione seriosa rinvio quella segnalatami dal mio amico di mouse Giulio Delise su www.Teatro.it

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Ancora sulla musica… Un concerto al Teatro delle Muse

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Domenica scorsa al Teatro delle Muse un bellissimo concerto nel calendario degli Amici della Musica ha visto sul palco l’Orchestra filarmonica marchigiana diretta da un grandissimo cornista: Alessio Allegrini e la prima parte del programma era, almeno per me, di una portata davvero eccezionale.

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Da quando il nostro teatro ha riaperto mai erano risuonate note di Wagner in quella sala!

Per stessa ammissione di amici orchestrali in realtà Wagner non era stato mai suonato da noi. Il pezzo era lo stupendo Sigfried Idyll e alcuni amici nell’intervallo mi domandavano se era per l’antisemitismo che non si suonava Wagner da noi…

Mica siamo in Israele ho esclamato e peraltro anche lì adesso lo suonano, perlomeno Baremboim lo ha fatto – ho risposto, ma un velo di perplessità è rimasto negli occhi dei miei interlocutori.

Il secondo pezzo, di rara esecuzione, il concerto per corno e orchestra di un giovanissimo Richard Strauss (non era scritto nel programma ma forse un omaggio al padre cornista dell’orchestra bavarese), ugualmente prezioso si è avvalso della grandissima esecuzione di Allegrini, cornista di livello mondiale, ma pure in questo caso stupore tra gli amici perchè anche Strauss a mia memoria non aveva finora trovato spazio nei cartelloni della nostra orchestra.

Nella seconda parte la quarta sinfonia di Beethoven ha riportato, pur nella rarità dell’esecuzione, l’uditorio ai programmi consueti.

Per me invece è stato uno dei pochi momenti in cui non mi sono sentita una specie di mosca bianca nella mia città.

Per fortuna devo annotare che c’erano tanti ragazzi del Liceo in galleria che dimostravano applaudendo con tanta forza di avere molto apprezzato il programma e questo mi ha fatto bene sperare perlomeno per il futuro culturale della nostra città.

Pensieri musicali…

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Due episodi apparentemente diversi mi portano a riflettere sulla capacità di trasmettere emozioni nella nostra lingua e attraverso la nostra memoria.

Noi italiani siamo piuttosto propensi a sottovalutare la portata del nostro pensiero, della nostra musica e in ultima analisi della nostra storia.

Ai funerali laici  di un vignettista di Charlie Hebdo con commozione e intensità si sono alzate le parole di Bella ciao e quel morto per la libertà ripetuto con la gola stretta e cantato con vigore mi ha colpito perché ho capito che la forza del pensiero e delle parole passa anche attraverso le varie lingue e ci rende molto più vicini.

Allo stesso modo quando Lissner ha aperto la serata inaugurale del nuovo auditorium parigino ha voluto tutto il coro schierato, compostamente in nero per dare un segnale in memoria dei tragici attentati parigini ed ha scelto il bellissimo Va pensiero del Nabucco di Giuseppe Verdi sottolineando l’anelito alla libertà di un intero popolo contenuto in quei versi e in quella musica.

Quelle note, che qualcuno avrebbe voluto anche come inno nazionale al posto del nostro affettuosamente pompier Inno di Mameli, hanno una portata universale, come universale ho capito essere anche il vecchio canto popolare con le parole di Bella ciao.

I nostro cugini francesi con la forza di una grande cultura laica ci hanno ricordato i grandi valori che qualche volta noi sottovalutiamo e che sono parte della nostra anima.

Le arie di Andrea Chenier

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L’Improvviso dell’Andrea Chenier sembra essere l’unico momento importante dell’opera di Giordano, in realtà ci sono perlomeno tre arie famose nell’opera ed io oggi voglio parlarvi di una di queste in relazione al cinema ed a una famosissima interprete: Maria Callas.

Ci sono due bellissimi film, molto diversi tra loro, che hanno avuto grazie a questa aria e a questa interprete il loro momento più suggestivo e pur nelle diverse intenzioni, collegate fra loro.

Mi riferisco all’aria La mamma morta interpretata in modo sublime da Maria Callas.

Il primo film è Philadelphia di Jonathan Demme, pluripremiato agli Oscar con Tom Hanks.

La suggestiva scena del ballo tra il malato terminale di AIDS e il suo compagno Antonio Banderas sulle note struggenti dell’aria di Giordano sono uno dei momenti clou del film e quello che sicuramente colpisce di più il cuore degli spettatori.

Ricordo all’uscita del film il successo della colonna sonora, sicuramente il traino lo faceva la canzone del titolo Philadelphia cantata da Bruce Springsteen, ma molti giovani impararono in quella occasione anche a conoscere la bellissima aria d’opera cantata dalla Callas.

L’altro film contiene addirittura nel titolo la stessa aria: Io sono l’amore di Luca Guadagnino, un film raffinatissimo e straordinario che forse non ha avuto la risonanza che meritava, pur essendo stato il film italiano candidato all’Oscar nel 2011.

Qui Tilda Swinton guarda alla televisione la scena del film di Demme e le stesse note, la stessa struggente aria sono il commento al suo cammino psicologico di liberazione.

Possiamo quindi dire tranquillamente che Andrea Chenier, quest’opera verista e molto amata in anni lontani, è un po’ troppo vicina al cliché della Rivoluzione francese vista con la frase di Marie Antoinette : Donne lui des brioches non è solo Un dì all’azzurro spazio come sembra essere in questi giorni tutto lo spazio che viene dedicato all’aria famosissima cantata dal solito Jonas Kaufmann e che separano dalla prima del ROH.

C’è comunque molto di più e se come spero l’edizione londinese ne leverà il lato troppo retorico di racconto pseudo storico visto dalla parte dei ricchi credo che potremo assistere ad un repêchage intelligente come peraltro già fu fatto con l’Adriana Lecouvreur.

Anche perché il terzo momento topico dell’opera, il cavallo di battaglia per i baritoni – Nemico della patria – cantato dal perfido Gerard altro non è che una sorta di Credo di Jago dell’Otello verdiano in chiave verista. Riconosciamo a Umberto Giordano, un autore sicuramente oggi passato di moda, questa capacità di colpire in maniera popolare i temi forti che parlano con facilità al cuore degli amanti della lirica d’antan.

Un pensiero per Elena Obraztsova

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Corre sul web la notizia della morte improvvisa di Elena Obraztsova e oltre al dover constatare quanto poco nel nostro paese la scomparsa di una così grande cantante trovi spazio sulla nostra stampa il mio pensiero corre al grande gala che la Tv russa le aveva dedicato nell’ottobre scorso.

Lo avevo trovato molto kitsch e ne avevo anche scritto sul mio blog.

Ripensarlo adesso, come un necrologio a futura memoria mi sembra tutto più tragico.

La grande cantante se ne stava in un palco laterale a ricevere gli omaggi floreali di tutti i suoi più giovani colleghi, poi ad un certo momento si era alzata e aveva cantato in maniera sublime l’aria della vecchia signora della Dama di Picche.

Un momento di grande classe, direi forse l’unico della serata.

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Inoltre passa continuamente su Classica il film di Zeffirelli Cavalleria Rusticana: quella Santuzza improbabile per i suoi occhi di ghiaccio era di una bellezza mozzafiato, la sua voce perfetta come la sua vis drammatica.

Elena Obraztsova se ne è andata improvvisamente, si è spenta un’altra splendida voce del novecento, penso sia pericoloso comunque rischiare questi eventi giubilari…rischiano di diventare pericolosamente anacronistici.

Ricordiamola come fanno in tanti con i suoi dischi e con le sue apparizioni televisive perché per fortuna adesso queste grandi voci non si perdono più del tutto nel mito ma possiamo ancora goderne nelle testimonianze registrate.

http://youtu.be/xeQBY_ZpejI

Videogame ed Europa

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Leggo il post di una mamma giovane.

Il suo bambino davanti alla televisione: Mamma, questo è un film vero?

In questo mondo dominato dalla civiltà delle immagini nel quale i videogiochi più cruenti e perfetti sembrano aver soppiantato i valori più importanti si rischia di perdere e soprattutto di far perdere alle menti più deboli il senso del reale e della sacralità della vita.

La visione dell’impatto dell’aereo sulle Torri Gemelle, visto e rivisto ha perso ogni tragico significato, piano piano è entrato in una sorta di mondo iperreale dove la tragicità si assomma all’effetto videogame e perde la sua valenza di orrore per trasformarsi in qualcosa di ripetitivo e totalmente astratto.

La frase innocente del bambino nasconde una terribile verità.

Oggi si è perso il netto confine tra il reale e il fantastico e questo in ultima analisi provoca anche una caduta del valore della sacralità della vita.

Chissà se i folli attentatori di Parigi non abbiano passato ore davanti ad una playstation fino a pensare che uccidere fa parte del gioco, che una vita umana ha un valore in punteggio veloce, in scorrere di dati che accompagnano azioni mirabolanti e sicuramente molto più prestigiose di quelle consentite anche ad un corpo giovane e ben allenato.

Ovviamente tra questo e il dire che è la società dell’immagine a produrre mostri si rischia chiaramente di fare un’affermazione minimalista e banale.

Ma la frase innocente del bambino mi ha fatto molto riflettere e non posso negare che anch’io sia rimasta inchiodata davanti al video per ore…in attesa di che?

Di sapere che il male assoluto era stato sconfitto? Questo lo provano i ragazzini davanti ai videogiochi, purtroppo sappiamo che il male non si combatte con mirabolanti salti e schizzi di sangue sul monitor.

Il sangue vero, quello che ha bagnato le strade di Parigi, la redazione di Charlie Hebdo e le negozio Kosher è un’altra cosa, è la dura realtà che ci troviamo ad affrontare, impreparati, in questo secolo nel quale pensavamo di avere vinto in Europa ogni forma di orrore.

Già, l’Europa…durante il periodo natalizio un bellissimo spot di una catena di supermercati inglese ha inondato il web di immagini relative ad un episodio vero successo la notte di Natale di un anno della grande guerra.

In quella notte i nemici: inglesi e tedeschi si scambiarono doni, uscirono dalle trincee e si abbracciarono.

In un altro video, diffuso dalla Comunità europea si ricorda lo stesso episodio allargato in maniera storica: francesi e tedeschi non combatterono, ma deposero le armi insieme. Poi la domanda: forse cominciò da lì l’idea di un’Europa unita tanto che gli Stati Maggiori ne ebbero addirittura paura?

Noi che siamo cresciuti nell’idea che l’Europa non debba più farsi le guerre, che debba fraternamente condividere anche il peso di errori passati, noi che abbiamo sfruttato con le nostre colonie altri paesi in altri continenti dobbiamo ragionevolmente affrontare questa realtà che non deve essere una guerra santa contro l’Islam ma una presa di coscienza che un nostro vecchio tranquillo mondo europeo è finito e quello che abbiamo davanti, un mondo nuovo molto più globalizzato, non ci appartiene più e tutto questo lo dobbiamo affrontare con realismo e consapevolezza della difficoltà delle future convivenze senza retorica ma anche senza facili perbenismi o ancestrali paure.

Io sono Charlie Hebdo

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Questo blog si occupa di musica, cultura, teatro ma questa settimana non è una settimana come le altre.

Tutti abbiamo il dovere di parlare di libertà, di rispetto per le idee dell’altro ma dobbiamo essere consapevoli di essere costretti a vivere in un mondo in cui l’orrore e la violenza ormai siano entrate nella vita di ognuno.

Le vite spezzate nel vile attentato a Charlie Hebdo non sono solo le vite di intellettuali scomodi, di vignettisti strepitosi e iconoclasti, le vite dei poliziotti che erano lì per difendere dei giornalisti che in una strada neanche tanto prestigiosa di quella Parigi minore e vicina al mio cuore non rappresentano solo se stessi. Sono le vite di tutti noi europei, di tutti coloro che ancora ciascuno nel suo piccolo mondo di valori cerca di vivere la realtà di un mondo che cambia tanto rapidamente da rendere difficile anche il più modesto percorso di comprensione.

In questo contesto mi ha molto colpito vedere su Facebook che un grande cantante, un uomo di spettacolo (e questa volta non è il solito tenore di cui parlo spesso), ma il grande basso René Pape

abbia cambiato la sua immagine del profilo adottando quella specie di mantra in tante lingue in cui tutti ci dichiariamo “Io sono Charlie Hebdo”.

Lo ammiravo, e molto, come cantante. Ora gli voglio bene come uomo che sente di dovere in qualche modo di partecipare con la sua testimonianza al rifiuto collettivo di tanto orrore.

Siamo ancora tutti attaccati ai nostri televisori, speriamo tutti che presto i feroci assassini vengano presi, vorremmo, perlomeno io, capire anche dei lati oscuri di questa straziante vicenda che ancora una volta ci ricorda la fragilità della nostra vita civile .

Quelle matite spezzate sono le nostre matite spezzate, quel sangue sui fogli per terra nel corridoio della rivista satirica prestigiosa sono l’immagine forte della fine di un‘ illusione.

Il terrore ideologico vive nella porta accanto, al nostro supermercato, nella metropolitana che prendiamo ogni giorno.

L’unico modo per combatterlo è quello di alzare le nostre mani nude tutti insieme e di gridare forte che la libertà di pensiero è la nostra unica forza, la nostra ultima scelta per difendere la più importante ragione di essere: vivere liberi ciascuno nel rispetto dell’altro.

 

 

 

Il soldato Schlump

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Capita di entrare in libreria per comprare dei regali di Natale e uscire con un nuovo libro in mano.

Non mi succede spesso e generalmente sono nella fascia di età in cui è più probabile che venga la voglia di rileggere piuttosto che lasciarsi sedurre dalle recensioni dei tanti, forse troppi nuovi libri che invadono le librerie proprio sotto le Feste.

Il libro di cui parlo oggi mi ha attirato e come al solito mi sono bastate poche righe di presentazione.

…un libro ritrovato, salvato dal rogo dei libri ordinato dai nazisti nel 1933.

Scritto da un insegnante di liceo e pubblicato anonimo il libro uscì nel 1928 ed è uno straordinario racconto che si svolge durante la prima guerra mondiale

Il suo protagonista, il soldato Schlump che dà il titolo al libro, è un ragazzo che si arruola volontario, giovanissimo e festoso in quella che sarà la prima grande carneficina d’Europa.

Un libro sconvolgente per la scrittura secca e tagliente, per la forte vena pacifista e per la carica di verità scomoda che lo pervade.

il_soldatoIl ragazzo Schlump, un soprannome un po’ volgare, attraversa gli orrori della guerra con incoscienza e gioia, testimone di orrori indicibili e al tempo stesso inconsapevole di ciò che sta vivendo.

Non è un romanzo per signorine, anzi come raccomandava una recensione dell’epoca è un libro che ogni uomo dovrebbe leggere.

Evidentemente non sono un’amante della letteratura romantica.

La lettura di questo libro mi ha tenuta inchiodata per giorni e quando sono arrivata alla postfazione ho anche capito meglio in che libro eccezionale avevo avuto la fortuna di imbattermi in libreria.

Spesso ho la brutta abitudine di leggere “prima“ la postfazione.

Questa volta sono stata fortunata e l’ho letta giustamente alla fine.

In effetti, anche se scritta anonimamente è il perfetto coronamento della preziosa lettura che la precede.

Pubblicato da Neri Pozza con una foto di copertina accattivante quanto fuorviante perché quegli eleganti giovani festosi che sembrano piuttosto uscire da un college inglese ben poco hanno a che vedere col nostro protagonista e con il duro mondo nel quale egli vive la sua grande avventura di soldato.

Non è, come potrebbe sembrare un romanzo di formazione, il classico Bildungsroman tedesco.

Schlump resta ingenuamente se stesso nell’atroce cammino di cui è testimone: il suo sguardo ferocemente realista non si riempie mai di orrore.

La sua visione resta oggettiva, mai emotivamente coinvolgente.

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Hans Herbert Grimm

Ritrovato fortunosamente attraverso il saggio di uno studioso che ha pubblicato nel 2008 l’elenco dei libri finiti nei roghi nazisti Schlump fu scritto da Hans Herbert Grimm e uscì anonimo alla fine degli anni venti.

La sua pubblicazione non ebbe quel successo che il suo autore aveva sperato , la contemporanea uscita del libro pacifista per eccellenza: All’ovest niente di nuovo di Erich Maria Remarque lo relegò in una seconda fila che molto ferì l’autore il quale aveva sperato un successo ben maggiore per la sua opera.

La storia del professore di provincia che seguitò a nascondersi nella sua Turingia fino ad iscriversi al partito nazionalsocialista, la sua triste vicenda di condannato per collaborazionismo alla fine della guerra fino ad essere radiato dall’insegnamento, la sua totale sconfitta che meriterebbe un romanzo oltre il romanzo chiude la lettura di questo libro prezioso che oggi consiglio a tutti coloro che armati di quel coraggio che serve sempre quando si voglia aprire davvero gli occhi su cosa sia l’orrore della guerra, di qualsiasi guerra, è la segnalazione regalo che faccio ai miei affezionati lettori attraverso il mio piccolo blog.

 

Ancora sul Lohengrin

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Passa e ripassa in questi giorni su Classica un Lohengrin del 2009 del Bayerischestaatsoper con un Kaufmann appena quarantenne debuttante nel ruolo del titolo in una regia che a quanto leggo dai commenti al bel pezzo ospitato sul mio blog e scritto da Caterina De Simone non ha trovato il gradimento di molti spettatori.

Quello che scrivo non è però in polemica con la mia amica con la quale sono sempre in sintonia ma mi viene sollecitato dalla scarsa valutazione di molti che ancora adesso privilegiano la messa in scena “bella” a quella che ha in se una forte idea innovatrice.

Sarà che da un po’ di tempo sono molto più abituata alle Inzenierung di matrice germanica che al gusto elegante di mise en scene impreziosite da bei costumi che mi viene più facile amare il nuovo quando è generato da un’idea forte, come dice lo stesso Kaufmann in una sua bella e lunga intervista sul tema.

Anche io avevo molto amato il Lohengrin dubbioso e problematico di Klaus Guth, quest’uomo venuto dal nulla e non a caso lo stesso regista aveva citato la sraordinaria e misteriosa apparizione sulla piazza di Norimberga di una sorta di smemorato, Caspar Hauser, come fonte di ispirazione per il suo Lohengrin.

Un Lohengrin molto umano, come sottolinea anche la De Simone, sconfitto e perdente, reso splendidamente nelle due famosisime arie In fernem Land e Mein lieber Schwan da un Kaufmann eccezionale .

Guardando e riguardando la messa in scena di Richard Jones, a mio avviso un regista molto geniale, si coglie invece meglio la missione ultraterrena del cavaliere del cigno.

In una società laica e formale come poteva essere in questa della messa in scena molto bavarese anni trenta c’è una giovane ragazza accusata ingiustamente di aver ucciso il fratellino e che sogna solo di costruirsi una casa borghese nella quale arriva l’extraterrestre, una specie di guru New Age che lentamente porta tutta la comunità a convertirsi al nuovo ordine mistico religioso ed ecco quindi spiegate tutte le magliette celesti che tanto hanno turbato lo spirito estetico nelle nostre affezionate scaligere.

Il male è rappresentato dalla cattiva Ortrud, dichiaratamente germanica e un po’ filo-nazista nella sua biondissima accentuazione ariana che fra l’altro invoca un Wotan e Fricka ancora bel lungi da venire nel Ring.

La scritta fiorita sulla casa degli sposi è una citazione di quello che Wagner volle fosse scritto sulla sua casa di Bayreuth: Hier wo mein Wähnen Frieden fand – Wahnfriend – sei dieses Haus von mir bennant, (grosso modo “qui dove la mia delusione trova pace , qui chiamerò la mia casa”).

Il Lohengrin dal bellissimo canto spiegato di Kaufmann si trova sì sconfitto, ma sconfitto nella sua missione divina, il suo è un dolore ben diverso da quello della Scala. Qui è un angelo ferito che singhiozza prima di lasciare quella pace terrena che sperava di avere trovato nella tenerezza di una casa con la culla già pronta, con la carrozzina fuori della porta, in quel suo essere falegname e costruttore di pace.

La direzione stupenda di Kent Nagano, la compagnia di canto di alta qualità , cito volentieri Micaela Schuster e soprattutto il Telramund di Wolfgang Koch fanno si che questo Lohengrin a mio avviso meriti di più di una sbrigativa valutazione tipo “ mi ha irritato” come ho letto tra i commenti al bel pezzo di Caterina.

Ma il discorso potrebbe essere anche più lungo, potremmo cominciare ad analizzare tutti i vari personaggi che un genio come Kaufmann riesce ad interpretare facendo dei suoi Werther degli unicum così come dei suoi molteplici Don Josè e Don Carlo….

Uno nessuno e centomila, mai come per lui questo titolo pirandelliano rende meglio l’idea della forza interpretativa dell’attore.